"...Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui che però ti tolgono il tempo per vivere... Lo spreco è [invece] funzionale all'accumulazione capitalista [che implica] che si compri di continuo [magari indebitandosi] sino alla morte." Blog di Jacopo Fo (Fonte: http://www.jacopofo.com/-la-vera-incredibile-storia-jose-pepe-mujica-presidente-uruguay)
Carissime lettrici e carissimi lettori
Spero di entusiasmarvi con questo articolo di Josefina Licitra (trad. Francesca Letizia Bonvicino), veramente interessante e oltretutto ben scritto. Si racconta di questo pazzo scatenato, ex guerrigliero Tupamaro, che si è fatto 15 anni di prigione di cui 10 in totale isolamento. È una lettura esaltante. L’unico punto che ritengo sia il caso di aggiungere qui è il fatto che Pepe per sopravvivere mentalmente all’isolamento in una cella di due metri quadrati inizia a vivere all’interno delle sue allucinazioni… E quando i medici del carcere se ne accorgono gli danno pastiglie che gli tolgono le allucinazioni. Pepe però non inghiotte le pillole perché si rende conto che le allucinazioni sono quello che gli salva il cervello permettendogli di avere una vita, anche se immaginaria. Come sapete mi occupo da anni di stati di coscienza e questo uso cosciente delle allucinazioni per costruire una realtà alternativa lo trovo affascinante. Un sistema di resistenza estrema a estreme sofferenze. Di fronte ai peggiori disastri riesce a salvare la propria mente chi si crea un obiettivo, un modo di leggere la realtà che lasci qualche speranza. Nelson Mandela ogni giorno inviava un esposto alla direzione carceraria protestando per ottenere diritti previsti dallo stesso regolamento nazista del carcere… Impiegò anni per ottenere il diritto di leggere un giornale economico, di destra, inglese. Altri anni andarono per ottenere il diritto a tenere ufficialmente lezioni di economia agli altri detenuti, durante l’ora d’aria. Qualche cosa di simile lo fece Primo Levi realizzando microscopici ritratti ai suoi compagni di detenzione nel campo di sterminio, convinto che sarebbe sopravvissuto e sarebbe riuscito a mostrare quei visi al mondo. (Video: Intervista a Josè Mujica "talk to Al Jazeera" sub ita)
Ecco l’articolo.
È impossibile che viva dove vive, che si vesta come si veste e che abbia avuto la storia che ha avuto. Pepe Mujica, il presidente uruguaiano, è l'uomo più senza cravatta di tutto l'universo.
Qui.
José Mujica, presidente della Repubblica Orientale dell'Uruguay, vive qui. All'entrata del rancho c'è una corda con appesi i vestiti di un bambino, povero; una casupola di mattoni grigi finita a metà, povera; un'accozzaglia di piante: juncos, yuyos, alti pascoli; un ettaro di terra appena arata; e cani, molti cani. Asinelli che vanno in giro con il passo lento degli animali vecchi e che ogni tanto cercano angoli d'ombra lì in fondo, dopo quegli arbusti, nella casa di José Mujica. Lì. José Mujica, presidente della Repubblica Orientale dell'Uruguay, si riposa lì: nelle quattro stanze di pareti scorticate, con una cucina, una poltrona rossa, una cagna con tre zampe (la mascotte di Mujica è zoppa) e una stufa a legna. Da quel bassofondo austero, quasi marziale, quest'uomo è emerso infinite volte, prima come legislatore della nazione, poi come candidato presidenziale, a ricevere la stampa. E ricevere, nel pianeta Mujica, è un verbo imperfetto. Mujica ha ricevuto giornalisti appena sceso dal trattore, senza la dentiera, con il pantalone arrotolato fino alle ginocchia e con una goccia di sudore che gli scende dal naso. Mujica ha ricevuto giornalisti con una manata affettuosa e con questa frase: “Piantala di blaterare e vattene a lavorare, che di questo ha bisogno il paese”. Mujica ha ricevuto giornalisti, in giorni di campagna elettorale, con le scarpe di corda ma senza denti (beh, ha fatto intere conferenze stampa senza denti), giocando con la sua cagna storpia e facendosi tagliare i capelli da uno sconosciuto che era andato a chiedergli lavoro. Mujica ha ricevuto giornalisti la stessa mattina delle elezioni presidenziali e li ha ricevuti in pigiama, con la barba lunga e con le gengive che rimuginavano quest'unica frase: “Nonostante il rumore, il mondo oggi non cambierà”. Quella, era la mattina del ventinove novembre 2009. E anche se il mondo non cambiò, quel giorno l'Uruguay cambiò rotta: con il cinquantadue per cento dei voti - vinti su Luis Alberto Lacalle in un ballottaggio - Mujica divenne il presidente più impensato dell'Uruguay e probabilmente della terra. Non solo per la sua austerità, portata all'esasperazione, ma per il suo passato, che non è altro che l'origine di tutto il resto. Mujica aveva militato nel Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros (MLN-T), una guerriglia nata e rafforzatasi sulla scia della rivoluzione cubana; è stato incarcerato due volte in un carcere che oggi, miracoli della globalizzazione, è un centro commerciale; scappò da quel bagno penale con una delle fughe più spettacolari che annoveri la storia carceraria universale; vide troppi amici morire e fu sul punto di morire troppe volte; rimase dieci anni isolato in un pozzo durante la dittatura militare del 1973, dove sopravvisse alla possibilità della pazzia; e arrivata la democrazia festeggiò quella vita regalata nell'unico modo possibile: arando e militando. Questa volta, nella legalità. Nel 1995, Mujica diventò il primo Tupamaro ad occupare un posto di deputato nazionale. Poi fu senatore. Poi diventò ministro. E alla fine del 2009 è diventato il primo “ex-guerrigliero” ad arrivare alla presidenza dell'Uruguay e a dare senso compiuto a una lotta ideologica per la quale si è immolata buona parte dell'America Latina. - Pepe è riuscito ad arrivare fin qui, prima di tutto, perché è sopravvissuto - dirà qualche giorno dopo José López Mercao, compagno di Mujica nel carcere di Punta Carretas. - In secondo luogo, perché il movimento armato si guadagnò una buona reputazione presso la popolazione: rimase sempre l'idea che i Tupamaros erano brave persone. E infine, perché Pepe è sempre stato un tipo molto umano, molto innamorato, molto sveglio e molto austero. Oggi Mujica si sposta in una Chevrolet Corsa abbastanza vecchia. Non usa la cravatta. Non ha un cellulare. Non ha una carta di credito. Proibisce ai funzionari del governo di usare Facebook o Twitter o qualsiasi altra cosa simile. Ha una moglie, la senatrice Lucia Topolansky, asceta come lui. E non vive nella residenza presidenziale, ma in questa fattoria dalla struttura precaria nel Rincón del Cerro: una zona rurale a venti minuti da Montevideo, dove la campagna è più una fatica che un luogo verde. Mujica passa qui i suoi giorni dalla metà degli anni '80, quando uscì dal bagno penale con la certezza che sarebbe tornato alla politica e si sarebbe comprato una piccola fattoria, l'una e l'altra cosa insieme. Con lui, Lucia Topolansky, anche lei Tupamara, e terza carica della repubblica dell'Uruguay; Micaela, la sua cagna a tre zampe e due famiglie che, non avendo un posto migliore dove andare a sbattere, andarono a parlare con Mujica e ricevettero in cambio un pezzo di terra nella stessa fattoria (da qui la costruzione grigia ancora a metà; da qui i vestitini da bambino stesi); e due uomini in divisa ora si presentano all'entrata e dicono, cortesemente, quello che sono venuti a dirci: “Chieda un'intervista agli uffici del presidente”. Da quando ha assunto la carica, Mujica, sino ad allora famoso per la sua disponibilità verso i giornalisti, ha concesso solo tre interviste e tutte allo stesso organo di stampa. La ragione è che i suoi addetti stampa sanno che Mujica parla come vive: senza cortesie e con la casa in costruzione, e ora che è un presidente, se ne vogliono prendere cura. Per questo interpongono filtri infiniti, e per questo, fra le altre cose, ci sono queste guardie, due tipi con il petto robusto, accompagnati da un cane labrador che si getta a pancia all'aria e riceve le mie carezze. - Questa è la casa del presidente - dice uno. - E inoltre, il presidente non c'è- dice l'altro. - Ah - dico io. Ci guardiamo in silenzio. Dietro questi due uomini si vede il bucato, vestiti consumati che pendono da una corda, la casa mezza in costruzione, i giochi dei bambini sparsi per i pascoli. Ma quello che non si vede è il resto: l'immenso cumulo di dubbio che si staglia in questo scenario di insolita semplicità. Perché José Mujica vive qui, questo è chiaro. La domanda è, com'è possibile? La domanda è, perché? - Io non volevo che Pepe fosse presidente. Julio Marenales è uno dei leader storici del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros e Mujica lo considera 'un fratello'. Hanno militato insieme, insieme sono caduti nel bagno penale di Punta Carretas, insieme sono scappati, e insieme, anche se separati, in diversi istituti, hanno sofferto dieci anni rinchiusi nei pozzi delle caserme. La distanza fra Marenales e Mujica è comparsa in questi ultimi tempi: Mujica è andato avanti nella politica, mentre Marenales, anche se appoggia Mujica, è rimasto nell'organizzazione. Oggi rappresenta l'ala radicale ed è diventato una specie di controllore della purezza ideologica del Movimento. - Pepe non può fare una presidenza con le idee che aveva come Tupamaro. Ha dovuto adattarsi. Si è conformato con il pensiero generale del Fronte Ampio, che è una forza in cui militano lavoratori ma anche imprenditori, e agli imprenditori piace il sistema capitalista. Quindi le idee che portò avanti anni fa il compagno Mujica adesso le tiene conservate, immagino, nel congelatore. Voglio dire: Pepe non ha intenzione di fare la rivoluzione. Il che non esclude che questo sia, e di molto, il miglior governo che abbia mai avuto questo paese. Marenales sorride: non ha nemmeno lui tanti denti. C'è qualcosa che unisce i Tupamaros e i loro denti. Forse è il passare del tempo, ma forse nemmeno quello, il tempo è diventato un modo gentile di spiegare le cose. Marenales, in ogni caso, è sempre stato chiamato Il Vecchio. Ora ha ottantun anni, ma si trascina quel soprannome da quando ne aveva qualcuno in più di trenta. Allora insieme a Raul Sendic (leader massimo dell'organizzazione, già morto e oggi figura mitica) aveva fondato il Movimento che poi accolse Mujica e buona parte della cupola che oggi governa l'Uruguay. Una storia molto breve, infantilmente breve, dell'MLN-T potrebbe essere più o meno così: i Tupamaros scesero allo scoperto pubblicamente nel 1966 in appoggio a una rivolta dei contadini della canna da zucchero (i lavoratori dipendenti più poveri dell'Uruguay) e in un contesto di pressione sociale forte: la fine del periodo post-bellico in Europa aveva portato con sé un aumento della produzione industriale nel Primo Mondo, e questo significava che l'America Latina aveva cominciato a riempirsi di prodotti importati e ad assistere alla débacle della propria industria nazionale. Verso il 1968 l'Uruguay smise di essere la “Svizzera dell'America” e si impantanò completamente nella melma latinoamericana: cominciarono i licenziamenti, i problemi dei gruppi corporativi, la militarizzazione degli spazi di lavoro e un indurimento delle maglie dello Stato che faceva intravedere il fantasma di un golpe militare. In quel contesto sorse l'MLN-T: un'organizzazione armata che, incoraggiata dal trionfo di Fidel Castro a Cuba, credeva che la rivoluzione fosse un obiettivo possibile e vicino, e in pochi di mesi riuscì a creare una sua mistica ideologica. I simpatizzanti dell'MLN-T aumentavano. Questo era dovuto al fatto che i Tupamaros non avevano il grilletto facile e che cominciarono a intraprendere iniziative illegali che molte volte erano a favore delle classi povere. Oltre alle procedure standard (furti di armi, alle banche, svuotamento di finanziarie, sequestri di qualche ambasciatore, etc.) ogni tanto fermavano un camion di merci e le distribuivano fra la gente dei quartieri vicini. Questa propaganda fece sì che l'organizzazione crescesse in modo esponenziale. Verso il 1971 il Movimento, che aveva cominciato con duecento membri, arrivò a cinquemila membri attivi, con un raggio di influenza di trentamila persone, e questo lo fece diventare il fenomeno di crescita più veloce nella storia di qualsiasi associazione politica. Fu quella crescita - e lo dicono loro stessi - che li rovinò. Con più membri cominciarono a esserci anche più errori. Nel momento in cui arrivò la dittatura militare - che in Uruguay si ebbe fra il 1973 e il 1985, con il colpo di stato di Juan Maria Bordaberry -, il Movimento era debole, con troppi morti sulle spalle, all'interno e fuori, e con molti attivisti in carcere. Il vertice militare approfittò di quella debolezza e scagliò il colpo più forte contro l'organizzazione: individuò i nove capetti dell'MLN-T e li isolò per dieci anni in prigioni sotterranee che non erano nemmeno nelle carceri, ma nelle caserme. Quegli uomini furono chiamati 'i nove ostaggi': perché attraverso di loro gli strateghi della dittatura facevano in modo che l’MLN-T non continuasse ad agire: qualsiasi movimento sbagliato e avrebbero eliminato uno dei leader. I nove ostaggi furono Mauricio Rosencof (scrittore, ora direttore della sezione Cultura della provincia di Montevideo), Eleuterio Fernández Huidobro (oggi senatore), Raúl Sendic (morto a Parigi nel 1989), Henry Engler (esperto in neuroscienze), Adolfo Wassen (morto di cancro alla colonna vertebrale mesi prima di essere liberato), Jorge Zabalza (oggi allontanatosi dal Movimento), Jorge Manera (anche lui allontanatosi), Julio Marenales e José Mujica. Fra tutti, si dice che Henry Engler e José Mujica furono quelli che risentirono di più della prigionia. Engler, oggi residente in Svezia, fu candidato al Nobel per la Medicina e fu protagonista di un documentario, El Círculo, che racconta l'evoluzione della sua pazzia durante la reclusione. E Mujica invece, dice che lui arrivò a parlare con rane e formiche. Marenales lo spiega così: “Se passi dodici anni in un quadrato di un metro per un metro, le esperienze sono così limitate che bisogna fare un grande sforzo per capire se le cose le hai pensate, le hai vissute o le hai sognate. Tutto il movimento si compie con la mente, e questo è pericoloso. Tutto, a un certo punto, può trasformarsi in finzione”. Marenales ha il respiro corto quando parla: è solo una piccola aspirazione, l'inizio di una mancanza d'aria che poi si spegne. Le sue mani sono grandi, ha fatto il falegname, ma il resto del suo corpo è piccolo, magro, perfino giovane. Gli anni di confino devono influire, in qualche modo, nell'aspetto esteriore di quest'uomo: c'è un tempo morto nel viso di Marenales; un velo insormontabile. L'ultima volta che lo presero, nel 1972, Marenales lanciò, su chi lo stava catturando, una granata che non scoppiò. Ricevette in cambio quattordici colpi di mitra. - Sono sopravvissuto per miracolo - dice. - Tutti- aggiunge - sono sopravvissuti per miracolo. Ad alcuni metri di distanza, un ventilatore soffia aria su una bandiera dei Tupamaros. La casa sa di carte vecchie. Tutto qui sembra più vecchio della sua età. Questo posto esiste dal 1986, quando finì la dittatura. E già nel 1989 fu deciso che l’MLN-T avrebbe continuato a funzionare, e avrebbe mantenuto questo locale, ma sarebbe entrato a far parte del sistema politico con un altro nome, il ‘Movimiento de Participación Popular’ (MPP), al quale appartiene Mujica. L'MPP, a sua volta, entrò a far parte del Frente Amplio: la coalizione di partiti di sinistra che da due legislature, prima con Tabaré Vázquez e ora con Mujica, governa l'Uruguay. In un angolo della sala principale c'è un cestino per l’immondizia con attaccato sopra il volantino di Mujica. Appare tutto pettinato, pulito: presidenziabile. - Per fare quella foto gli fecero il bagno - scherza dopo Eleuterio Fernández Huidobro. - Pepe lo abbiamo messo lì noi - dice ora Marenales. - Abbiamo sempre lavorato come un collettivo. Al di là delle caratteristiche personali di ciascun compagno, noi non crediamo che la storia vada avanti sulla base di uomini brillanti. - Ma perché è stato scelto Mujica e non un altro? Marenales si sistema la montatura dorata degli occhiali, sulle ossa sottili, si abbassa in avanti, e parla: - Perché Pepe aveva un vantaggio. Nel Frente Amplio a noi non ci volevano granché. Dicevano che eravamo dei bifolchi. Ma Pepe aveva tre appoggi: quello delle nostre spalle, perché nel Movimiento lo abbiamo sostenuto come abbiamo potuto. Quello della sua storia personale, perché Pepe viene dalla terra e l'ha sempre coltivata, senza sentire mai sopra di lui la mano del padrone, sempre più o meno in modo autonomo. E quello di coloro che stanno in basso. Sono stati loro che lo hanno portato alla presidenza. Ed è per questo che Pepe ha preso un impegno grande con la gente umile. E dobbiamo aiutarlo a mantenere fede a quell'impegno. Perché è quello che sta facendo. Marenales non ha voluto incarichi nel governo. Ci sono anche quelli che dicono che questo rifiuto è dovuto al fatto che è clinicamente pazzo - un sinonimo adatto alla definizione di 'disadattato' -, ma forse esiste anche un altro motivo: perché ci sia un Mujica che governa il paese, ci deve essere anche un Marenales che gli dice all'orecchio: non dimenticare. - Non dimenticare quello che siamo stati una volta. Non dimenticare l'obiettivo. Questo gli dico. Però in realtà lo vedo sempre meno. Fra le rarissime foto di quei tempi, esiste un'immagine che ritrae Marenales di profilo. È il 1968, lo stanno portando in carcere a Punta Carretas, e quello che si osserva è un uomo col naso dritto, i capelli anneriti, la fronte corrucciata e il viso ermetico. L'uomo forte che Marenales è stato e continua a essere. Un uomo che stava programmando, in quello stesso momento, la sua fuga.“Shopping Punta Carretas”: così dice il cartello all'entrata. Il nome è scolpito all'ingresso del centro commerciale, su un'insegna degli inizi del 1900, nello stesso posto dove prima si leggeva “Cárcel de Punta Carretas”. Prima tutto questo era grigio, ma ora ha il colore che l'immaginazione neoliberale riserva per questi casi: il beige. Tutte queste merde sono sempre beige. A sinistra dell'entrata c'è un Mc Café, a destra un ristorante che dice Johnny Walker, e in fondo c'è il centro commerciale, che è uguale a tutti i centri commerciali della terra, pavimenti lucidi, borse con le cordicelle, e il vapore di una musica che non è nemmeno brutta: è fredda. Non è facile immaginare in che angolo di questo edificio possa essere stato Mujica; dove avranno ideato la loro fuga, questi tipi? Nel negozio Lacoste? In quello delle calze Sylvana? Adesso c'è un soffitto trasparente e si può vedere il cielo, ma prima? Che dimensioni aveva il cielo prima? Nella sede dell’MLN-T, senza che Julio Marenales lo sapesse, c'era un modellino del carcere: si vedeva, in sezione longitudinale, un carcere di quasi quattrocento celle divise in due bracci di quattro piani ciascuno, separati da un cortile centrale. Lì, cioè, qui, nel 1970 arrivò Mujica con il corpo cucito di pallottole, dopo aver passato tre mesi all'Ospedale Militare. Quel percorso era cominciato tempo prima, nel bar La Vía, il luogo nel quale si era recato Mujica con altri Tupamaros, per organizzare il furto a una famiglia milionaria che si chiamava Mailhos. Quella notte un poliziotto riconobbe Mujica mentre stava appoggiato al bancone, e chiamò chiedendo rinforzi. Quando arrivarono, Mujica aiutò i compagni a fuggire, ma non poté farlo lui. Un poliziotto gli sparò, era nervoso. “Occhio, che ti può scappare un colpo”, gli disse Mujica. E il colpo gli scappò. Mujica arrivò all'Ospedale Militare con sei pallottole in corpo. Ma vivo. E tre mesi dopo fu mandato a Punta Carretas: un luogo che, a confronto di ciò che avrebbe visto dopo, somigliava abbastanza a una scuola di studenti adolescenti. Lì (o qui?, potremmo continuare a dire 'qui'?) i militanti addestravano nuovi compagni (delinquenti comuni che finivano per unirsi al Movimento) e li formavano al lato stoico della rivoluzione: le loro celle erano pulite, i loro corpi atletici, e le loro teste..., insomma, a questo punto è chiaro come lavoravano le teste di questi tipi. - Io davo lezioni di tattica e insegnavo a fare esplosivi - raccontò Marenales nella sede dell'MLN-T. Il livello di precisione dei disegni era molto alto. Se da una parte bisognava fare una vite e il compagno disegnava un piccolo cerchio, io allora gli dicevo: questo non è una vite, è un chiodo. La vite ha una fessura per il cacciavite. A questo livello di precisione. Era necessario essere dettagliati. Con gli esplosivi fai un errore, ed è l'unica volta che lo fai. Sempre più detenuti comuni cominciarono a considerare i Tupamaros come un gruppo ammirevole, e alcuni ladri misero a disposizione della causa le loro conoscenze: insegnarono, per esempio, a fare un buco nel muro in nemmeno un minuto, lavorando non sui mattoni, ma sulla malta che li unisce. Grazie a questo, tutte le pareti del carcere, e anche alcuni soffitti, avevano il loro buco e tutte le celle erano segretamente collegate fra di loro. Quest’opera di ingegneria permise la storica fuga del 6 settembre 1971. - Volevamo organizzare un piano di fuga che non solo volesse dire tornare in libertà, ma che rappresentasse anche un duro colpo per il governo - disse Marenales. - Volevamo umiliarli. Il 13 agosto 1971, alle sette di mattina, dopo il primo controllo dei prigionieri nelle celle, i detenuti cominciarono a scavare sotto un letto. Mettevano la terra in sacche che erano state preventivamente confezionate con le lenzuola del carcere, e quelle sacche le mettevano sotto le cuccette. Quando quella superficie si riempiva, si apriva il buco che collegava le celle e si passavano le altre sacche sotto il letto della cella accanto. Così, in assoluto silenzio, due piani del carcere si riempirono di macerie. La perquisizione dei piani avveniva ogni ventitré giorni, e quindi i Tupamaros avevano poco più di tre settimane per fare quaranta metri di tunnel. José López Mercao, che stava nella cella accanto a quella di Mujica, poi avrebbe ricordato questo aneddoto: -Una volta Pepe prende e fa: “Svelti! Chiudete tutto, che il prigioniero di sopra, che è un rompiscatole, sta battendo e dice che qui sotto c'è rumore, chiudete tutto che ci viene tutto addosso!”. Fu il delirio: riempimmo con le macerie, mettemmo il gesso, una mano di pittura, uno strato per asciugare, e poi rimanemmo quieti ad aspettare; in vita mia non ho mai fatto una cosa così velocemente. E quando abbiamo finito, quel vecchio figlio di puttana ci disse: “No, era per vedere quanto tempo ci sarebbe voluto per chiudere tutto, solo quello...”. Dopo aver lavorato più di cinquecento ore senza fermarci, e senza rimanere indietro di un giorno, la notte del 6 settembre 1971 centoundici uomini (centosei guerriglieri e cinque detenuti comuni) scapparono in un'azione che loro stessi definirono “l'abuso”. - L'abuso - avrebbe detto López Mercao - perché quello che facemmo fu un abuso-. Gli uruguaiani hanno questo senso dell'umorismo.
L'abuso venne in mente a Mujica. C'erano diversi piani per la fuga, ma quello che fu scelto venne fuori da un'idea di Pepe. Lui ebbe l'idea di fare i buchi attraverso tutte le pareti. E poi quell'idea fu come l'invenzione della ruota: c'erano diversi piani di fuga, e quindi serviva per molte più cose.
Eleuterio Fernández Huidobro oltre a essere senatore, è un altro dei Tupamaros che Mujica definisce come un 'fratello'. - Pepe è sempre stato un pragmatico. C'erano i teorici, quelli che per fare una cosa la complicano, e c'era Pepe, che veniva dall'esperienza di lavorare la terra. Come dice l’aforisma, Pepe pensa come Aristotele, ma parla come Giovanni Popolo. Huidobro è appoggiato al bancone di un bar. Il suo sguardo schivo, unito alla grassezza e alla stanchezza stampata sul viso morbido, fanno pensare che quest'uomo una volta abbia avuto la sua integrità. Ci sono anni che durano per sempre: forse è questo. Ci sono anni che non finiscono mai. Come Mujica, Huidobro è stato a Punta Carretas, è uscito con 'l'abuso', è passato dal carcere di Libertad (che stranamente si trova in un paese che si chiama Libertad), e andò a finire nelle caserme: sotterranei con celle di 1,80 x 0,60 dove i nuovi ostaggi furono costretti poi a passare dieci anni di vita. Questa ultima tappa fu brutalmente diversa dalle precedenti: gli ostaggi erano separati, in gruppi di tre, e ogni terzetto andava in una caserma diversa; i prigionieri erano completamente isolati fra loro; praticamente non ricevevano né cibo né bevande; non gli si permetteva di andare in bagno; men che meno ricevevano lettere, o visite. Huidobro era nella stessa caserma con Mauricio Rosencof e Mujica. Era quasi impossibile avere contatti fra loro, ma durante gli anni riuscirono a mettersi d'accordo su un punto: non dovevano impazzire. Rosencof cominciò a scrivere mentalmente: erano poemi di versi brevi, a volte di un'unica parola, perché fossero più facili da memorizzare:
Io / non / sono / pazzo, / dico. / Perché / mi guardi? / Io / non / sono / pazzo, / dico. / Gira / il corvo, / dice. / Guardo / il suo nido.
Rosencof scriveva cose così, e fu lui che riuscì a intrattenere lunghi dialoghi con le sue scarpe e uscendo dal carcere pubblicò un libro bello, indimenticabile, di sue poesie: Conversaciones con la alpargata (Conversazioni con le scarpe di corda).
Huidobro, da parte sua, passò anni interi a immaginare che correva lungo la spiaggia e faceva la pipì dove capitava. E Mujica diventò amico di nove rane e verificò che le formiche, se si ascoltano da vicino, comunicano con grida. In Mujica, la biografia completa scritta da Miguel Ángel Campodónico, Mujica riassume in questo modo il suo passaggio dalle caserme: “Io di solito non parlo della tortura e di quanto ho sofferto. Mi dà perfino un po' fastidio, perché ho visto che a volte c'è stata una specie di corsa misurata con un 'torturometro'. Persone che si compiacciono nel ripetere 'ah, come sono stato male'. Io dico che io sono stato tanto male per mancanza di velocità, fu per quello che mi presero. Alla fin fine, la vita biologica è piena di trappole così enormi, così tragiche, così dolorose, che quello che successe a me fu una sciocchezza”. E lo dice: una sciocchezza. Dal terzo anno di reclusione i nove ostaggi cominciarono a ricevere materiale di lettura. Non erano permesse opere di scienze sociali o romanzi, ma era lo stesso: tutte le parole a quel punto erano finzione. Mujica si dedicò alla matematica e alla rivista Chacra. - Poi Pepe mi aggiornava sulle sue letture e mi parlava della Pampa umida - dice Huidobro. Ma quando dice 'parlare' in realtà si riferisce a un'altra cosa: col passare del tempo, Rosencof, Huidobro e Mujica idearono un sistema di dialogo attraverso colpi sulle pareti. Seguendo questo modello, le lettere dell'alfabeto erano divise in gruppi di cinque. Il primo colpo definiva il gruppo, e il secondo colpo dava l'ordine della lettera all'interno del gruppo. - Quando ci prendevamo la mano, parlavamo come matti. È come una seconda lingua che poi ti resta per sempre. - Di cosa parlavate con Mujica? - Lui di solito mi parlava di agricoltura, di come migliorare la produttività dei campi. E poi, quando hai molta fame, fame che ti porti dietro da anni, non c'è comunicazione che non inizi o finisca con il cibo. Con Pepe parlavamo di patate, maiali, vacche, ma in realtà stavamo parlando di costolette. Per mancanza di liquidi e di cibo, Mujica si ammalò gravemente alla vescica e ai reni. Non si è capito cosa avesse, ma si sa che doveva andare spesso in bagno, che non lo lasciavano uscire dalla cella e che adesso ha un solo rene. Per guarire doveva bere due litri di acqua al giorno. Ma nei periodi buoni i militari gliene davano appena una tazza. Con quella tazza Mujica finì per fare l'unica cosa possibile: riutilizzare quello che produceva. Beveva la sua pipì. Tutti lì bevevano la propria pipì. Anni dopo, quando dalle caserme avvertirono che la situazione di Mujica era clinicamente grave, i carcerieri cominciarono a idratarlo con un cucchiaio di thè e permisero che sua madre, Lucy Cordano, gli portasse un vaso da notte. Era un vaso da notte rosa. Da quel momento, Mujica si portava quel vaso da notte sotto il braccio ogni volta che lo trasferivano di caserma - e succedeva ogni sei mesi - e lo fece anche nel 1983, quando le pressioni degli organismi internazionali riuscirono a far trasferire i nove ostaggi al carcere di Libertad. - Quando dopo dieci anni ci fecero tornare a Libertad, una causa per la quale stavamo lottando, per noi fu un paradiso - dice Huidobro. Noi eravamo felici, felici in un modo incredibile, non te lo puoi nemmeno immaginare, perché avevamo mezzo pacchetto di sigarette e un luogo dove andare a fare la pipì. A Libertad c'era mezz'ora d'aria al giorno, i detenuti discutevano di politica e si giocavano perfino partite di calcio. Ma Mujica non migliorava. Nessuno lo tirava fuori dal suo isolamento. Alla fine lo vide un medico e si prese la decisione: Mujica avrebbe lavorato nel vivaio del carcere. Qualcosa ritornò a Mujica, quando Mujica tornò alla terra. - Ho detto che sono quasi panteista - disse nella biografia di Miguel Ángel Campodónico. E quando dico che parlo con le piante, naturalmente non sto dicendo che veramente parlo con loro, ma che cerco di interpretarle. C'è un’infinità di linguaggi, di segnali, che naturalmente a partire dal momento in cui li ho capiti mi suscitano ammirazione. Sono tutte forme organizzate dalla natura per mantenere la lotta per la vita. Una zolla dev'essere come un intero laboratorio, così complicato che l'uomo non è nemmeno capace di riprodurlo. Si può essere religiosi perché si è analfabeti. Ma si può anche avere un atteggiamento religioso quando si inizia a sapere e si capisce che non si sa nulla. Il 14 marzo del 1985, quando cadde la dittatura e Julio María Sanguinetti assunse la presidenza dell'Uruguay, ai nove ostaggi fu concessa l’amnistia e furono rilasciati. Mujica uscì dal carcere con il vaso da notte in mano, pieno di calendule fiorite.
Un uomo arriva in Vespa al Parlamento. Ha i capelli arruffati dal vento, un paio di jeans, un giubbotto nero, i baffi. Lascia la moto parcheggiata all'entrata.
- Quanto tempo pensa di stare? - Gli chiede la guardia. - Se non mi buttano fuori prima, cinque anni - risponde l'uomo. Questo, secondo una leggenda che nessuno nega con molta enfasi, è quello che sarebbe successo il primo giorno in cui José Mujica, primo Tupamaro deputato, arrivò al Parlamento. Era il 1995 e quello stesso giorno, trasmesso sulla televisione nazionale, prestava giuramento come presidente per la seconda volta Julio María Sanguinetti, e quindi la sala era piena di ambasciatori, mandatari, esponenti della gerarchia della chiesa e autorità varie. Ma Mujica entrò così: capelli arruffati, jeans, senza cravatta. - Io ho pensato: crederanno che è una manovra pubblicitaria - disse Huidobro al bar, giorni prima. - Loro non lo sanno, mentre io sì, che il giubbotto è nuovo. Che i pantaloni sono nuovi. Che si era pettinato. E che non si vestirà mai più così. Come diceva Sancho a don Chisciotte: “Ciascuno è come Dio lo ha fatto, e a volte anche peggio”. Anche peggio. L'arrivo di Mujica al Congresso significò un cambiamento per la politica uruguaiana. In primo luogo, perché furono cambiati gli usi e i costumi della Camera; per esempio, arrivò il mate nelle sedute legislative. In secondo luogo perché quella cosa formale in realtà portava con sè un cambiamento di fondo: Mujica ha usato il suo seggio in Parlamento per girare il paese e inserire nei suoi discorsi ciò che già, da piccolo, caratterizzava la sua vita: l’agricoltura. Mujica, figlio di una floricultrice e di un padre allevatore che finì rovinato e morì giovane, fece il suo primo discorso nel Palazzo Parlamentare sul tema del pascolo. E dal pascolo passò alla vacca che mangiava il pascolo. E dalla vacca passò al paese allevatore. - Coloro che credevano che Pepe fosse un problema di comunicazione passeggero, un prodotto effimero, si sbagliarono - disse Huidobro. Pepe fu uno dei migliori deputati di quella legislatura, un oratore brillante. È stato lui a dare voce a tutto l'interno dell'Uruguay e ha avuto una specie di fidanzamento appassionato con il pubblico. L'arrivo al Parlamento è stato solo l'inizio. Cinque anni dopo Mujica è stato eletto senatore. E nel 2004 la sua figura si è rivelata chiave perché la sinistra, comandata dal moderato Tabaré Vázquez, arrivasse per la prima volta al potere. Mujica partecipò al governo di Vázquez come ministro dell'Allevamento, Agricoltura e Pesca, e ne uscì benissimo. Tanto, che nel 2009 stravinse le primarie all’interno del Frente Amplio per presentarsi alla candidatura presidenziale, e affrontò le elezioni nazionali con proposte impensabili per qualsiasi candidato del ventunesimo secolo. Mujica propose di discutere della proprietà privata delle grandi proprietà terriere, togliere il segreto bancario, “importare” contadini dal Perù, dalla Bolivia, dal Paraguay e dall'Ecuador perché lavorassero nelle zone rurali “perché i montevideani poveri di qui non lo fanno” e risolvere il problema della droga “prendendo i drogati per le chiappe e sbattendoli in una fattoria”. Insomma, propose di prendere il toro per le corna. Il che comportava dei dubbi dal punto di vista operativo - come si poteva fare? - e dilemmi di tipo congiunturale. Mano a mano che Mujica iniziò a parlare, si capì che il maggior oppositore non si trovava nell'altro partito, e nemmeno in un altro corpo: il maggior pericolo di Mujica era, in parte, il suo più grande capitale politico: la sua inusitata franchezza. L'onestà di Mujica arrivò al suo culmine in ottobre, a pochi giorni dal ballottaggio che avrebbe assegnato la presidenza a lui o al liberale Luis Alberto Lacalle, proprio quando uscì il libro Pepe Coloquios: una lunga intervista nella quale Mujica, solo per dare qualche esempio, dice che l'Argentina “non è un paese di quarta categoria, non è una repubblica delle banane”, ma ha delle “reazioni da isterico, da pazzo, da paranoico”; che “in Argentina bisogna andare a parlare con i delinquenti peronisti, che sono i re”; che quelli di Buenos Aires hanno la mania di venire a fare il bagno qui, e a loro piace, perché è un piccolo paese simile al loro, ma più dolce, più decente” e che “i radicali sono dei tipi molto bravi, ma sono degli stupidi”. Cioè: Mujica non ha detto niente che nessuno non pensi già. Ma il mondo della politica impone le sue regole di cortesia ed è stato così che Mujica ha ridimensionato la maggior parte delle sue dichiarazioni, immediatamente ha chiesto scusa, ha diminuito drasticamente i suoi incontri con la stampa, un provvedimento ancora in vigore, ed è riuscito a vincere il ballottaggio con il 52,53% dei voti. “Questo mondo è pura facciata; e questo non si può dire, e quello nemmeno... La libertà è ipotecata! Uno dei vantaggi che suppone il fatto di essere vecchi è poter dire quello che si pensa. Ma sembra che questo significhi creare un casino della madonna.” Questo ha detto Mujica qualche giorno prima della prima tornata elettorale, in un'intervista alla rivista messicana Gatopardo, quando si stava già parlando del disastro di Pepe Coloquios. Quindi saranno questi i vantaggi di essere vecchi. Il prossimo 20 maggio, Mujica compirà settantasei anni.
-Come va, Rosencof, sono a Montevideo. Si ricorda che eravamo rimasti che ci saremmo visti?
-Ragazza mia... -... -Sai che sono in ospedale. Mi si è guastato il pacemaker, non so che imbroglio di fili hanno combinato questi... -... -... -Allora è ricoverato? -Sì, cara, questo... siamo nell'era dell'ortopedia. Mi sto disintegrando.
Zoppica. Camminando per il corridoio del Palazzo del Parlamento, Lucia Topolansky, sessantasei anni, la senatrice più votata del Parlamento, terza nella linea di successione alla Presidenza, Tupamara, compagna (lei non dice 'consorte', non dice 'moglie', dice 'compagna') di José Mujica, viene avanti con una lieve zoppia ai fianchi.
Il Parlamento è deserto; è febbraio. I passi risuonano in un modo diverso. - Vieni - dice Topolansky. La seguo. Il suo ufficio è piccolo: nove metri quadrati dove ci sono alcune cartelline, una finestra, uno scrittoio. Sul tavolo di lavoro ci sono carte, una scatola con del thè e lingue di gatto, e una piccola tartarughina di legno verde che muove la testa come a dire 'sì'. Topolansky, con i capelli corti, bianchi, taglio discreto, accarezza dolcemente la tartaruga. - Dimmi - dice. E io le racconto. Le parlo della rivista. Delle nostre buone intenzioni. Topolansky ascolta con un sorriso unito a qualcos'altro: a una cortese messa in scena della distanza. Tutti dicono che questa donna è dura. In tempi di militanza clandestina la soprannominavano 'il tronco' per quel corpo così massiccio, e probabilmente non solo il corpo era così duro. Fra il 1970 e il 1985 Topolansky rimase in carcere quasi tutto il tempo. Crede che quella reclusione fu necessaria. - Il popolo apprezzò molto che i dirigenti dell'MLN non scappassero in esilio, che rimanessero in Uruguay e condividessero la sorte del loro popolo. Tutti i nostri dirigenti furono incarcerati e questo la gente lo prese con favore. Questi fatti ci diedero un certo prestigio. Può sembrare molto soggettivo, ma queste sono le ragioni dell'anima che restano incise nella memoria della gente -. Topolansky è figlia di una famiglia di classe medio-alta del quartiere Pocitos e ha studiato al Sacre Coeur, una scuola di monache che era diventata famosa, tra le altre cose, per la sua altera calligrafia conosciuta come 'la grafia del Sacre Coeur'. Questo però non spiega perché dica 'sogetivo'. Nè perché più avanti dirà 'prodoto' o 'adatarsi' . C'è chi dice che potrebbe trattarsi di una posa, ma questa ipotesi cancella - o mette in secondo piano - la possibilità della colpa. Quello che è certo è che Topolansky, pantaloni color crema, camicia bianca molto leggera, dice 'sogetivo' e poi, al contrario di qualsiasi sindacalista argentino, si adatta a vivere come parla. E questo da molto tempo. E questo, forse, dovrebbe essere abbastanza. Topolansky si arruolò nell'MLN-T a vent'anni, e fin dall'inizio diede prova di avere carattere. Era il 1969 e a quell'epoca lavorava da Monty: una finanziaria che, aveva scoperto la Topolansky, teneva la contabilità in nero praticamente di tutto il gabinetto dei ministri e dei capoccia della oligarchia uruguaiana. Quando seppe la verità, Topolansky si chiese fino a che punto era complice di quella situazione e che cosa doveva fare: se andarsene o denunciarli. Scelse entrambe le cose. Si arruolò nell'MLN-T con la sua informazione privilegiata e insieme al Movimento riuscì a fare in modo che le fotocopie dei libri contabili finissero davanti alla porta di casa di un giudice e scatenassero uno scandalo politico che si trascinò dietro il ministro del Tesoro. Inoltre, ovviamente, si licenziò. - Quando sei una ragazzina pensi le cose con un'altra testa. Adesso, con l'età che ho ora, rifletterei di più su tutta la questione. Ma appartengo a quella generazione sulla quale la rivoluzione cubana ha avuto un forte impatto, e le cose bisogna vederle in questo contesto. Eravamo convinti che potevamo fare la rivoluzione. Convinti. E quanto tu sei motivato, ovviamente il rischio si vede in un altro modo. - A quei tempi, in alcune delle tante riunioni clandestine, Topolansky (dicono che fosse bella) conobbe José Mujica. Stettero insieme alcuni mesi, ma poi entrambi finirono in carcere: lei a Punta Rieles (da cui scappò, anche se poi la ripresero) e lui a Libertad e poi nelle caserme. Al di là di alcune lettere nei primi tempi, il resto del fidanzamento fu segnato da un lungo, interminabile silenzio. Sopravvissero anche a quello. Quando parla della sua compagna, nel libro di Campodónico, Mujica lo fa così: “Visto che entrambi eravamo soli, alla fine ci siamo messi insieme. Nella formazione della coppia c'è stato un elemento di bisogno, fu una specie di rifugio reciproco. Ci ritrovammo in un'epoca abbastanza particolare, del tutto diversa da quella che ci eravamo lasciati indietro. Credo che qualche volta glielo dissi in una lettera: quando uno si avvicina ai cinquant'anni pensa che una buona compagna deve essere una buona cuoca. L'amore quindi comincia ad avere molto di amicizia, di cose che rendono la convivenza più facile. E credo che tutto questo è quello che ci ha fatto restare insieme, andiamo d'accordo che è una meraviglia”. Un bisogno, un rifugio: l'amore per loro era questo. - In quegli anni, in cui si correva da una parte e dall'altra, tutto era subito. - dice Lucia Topolonsky - Era molto difficile il dopo. Tutto era oggi, subito, perché domani non so se ci sarò, e tutti i rapporti umani venivano permeati da quell'urgenza. - Ma non c'era il colpo di fulmine? Qualcosa si ammorbidisce, si schiarisce, nel volto della Topolonsky. - Certo che esiste l'affinità, l'amore, il colpo di fulmine, la chimica o dagli il nome che vuoi. - Quindi, poteva esistere, fra militanti, un pensiero tipo “che begli occhi che ha”. - Certo. Quella è l'unica cosa che ti tiene su. Ti attacchi a quelle cose. Il rapporto con Pepe ebbe tre fasi: quella degli occhi belli, poi una lunga fase di separazione in cui il ricordo della prima ti serve come l'ossigeno, e poi una tappa che è questa, in cui siamo riusciti a reincontrarci e a ricostruire tutto. Nel 2005 Topolansky e Mujica si sono sposati nella cucina della sua fattoria. I testimoni sono stati i vicini: alcuni che vivono nello stesso terreno, e altri che hanno un bar sgangherato all'angolo, e l'evento è durato poco più di un'ora. Quella stessa sera, l'8 ottobre, Pepe fu a un evento dell'MPP e fece vedere i documenti del matrimonio. - Sì. Un giorno a Pepe gli è venuto in mente che ci potevamo sposare e ci siamo sposati. - Ma l'idea ti era piaciuta? - Eh... mah... in realtà di fatto non mi ha cambiato niente, no? Io sono sempre stata mezza anarchica da piccola, vedevo come le mie zie e le mie cugine si complicavano la vita per sposarsi, e così ho sempre seguito le scelte che mi permettevano di mantenermi mezza libera. Senza alcun legame. E sì, non ho avuto legami di alcun tipo. Silenzio. - Non so cosa sarebbe successo se avessi avuto un figlio a quell'epoca. Ma non lo abbiamo avuto. Né in quel periodo né in nessun altro. Mujica e Topolansky non hanno avuto figli; e a loro dispiace.
Questo è il baretto all'angolo. È qui che ha festeggiato José Mujica quando ha vinto le elezioni. Qui ha riunito il suo gabinetto dei ministri. È qui che ha portato il venezuelano Hugo Chávez quando lo ha voluto omaggiare, nel 2007. E qui, in fase preelettorale, ha organizzato il suo ufficio. Il luogo si chiama “El quincho de Varela”, è a cento metri dalla fattoria di Mujica e consiste in una costruzione rettangolare, con un tetto di paglia e pareti di mattoni, e si trova di fronte a un campo appena arato.
Il luogo appartiene a Sergio 'El Gordo' Varela, soprannominato anche “lo zozzone”: un commerciante all'ingrosso di alimentari che non rilascia dichiarazioni alla stampa e che durante la campagna si occupò di mettersi in contatto con le diverse imprese del Centro de Almaceneros per chiedere loro fondi che sostenessero il nuovo cambiamento al vertice. Gli interni del baretto di Varela brillano di un pavimento di pietra consumato, un tetto dal quale pendono due bandiere, una del Frente Amplio, un'altra dell'Uruguay, e varie immagini del Che, di Neruda, Allende e Chávez, tavoli fatti con tavole su cui qualcuno ha scritto 'Pepe presidente', una masnada di cani spelacchiati, e giocattoli di bambini gettati a terra. Una donna grossa e con vestiti scoloriti si avvicina, spaventa i cani, si toglie il sudore dalla fronte e dice: - Vabbé, poi quando vengono loro sistemiamo un po' meglio.
I funzionari del governo che appartengono al Movimiento de Participación Popular (MPP) hanno un tetto per i loro stipendi. Il massimo che possono guadagnare sono trentasettemila pesos (millenovecento dollari). Questo significa che la maggioranza, di loro: Huidobro, Mujica, Topolansky e il ministro Eduardo Bonomi, prendono al netto appena il trentacinque per cento del loro stipendio. Il resto va al Fondo Raúl Sendic (che concede microcrediti a progetti per lo più di cooperative, senza interessi, senza firmare carte e senza la richiesta di appartenere al Movimento) e a un fondo di solidarietà con cui si presta soccorso ai militanti dell'MPP che stanno attraversando un momento di emergenza economica.
Nel suo ufficio Eduardo Bonomi, ministro degli Interni, considerato il braccio destro di Mujica nel governo, spiega il limite di stipendio in questo modo: - È molto facile dare ciò che ci avanza. La questione è dare quello che non ti avanza. - Ma non ti viene mai la voglia di comprarti un televisore al plasma? Bonomi si massaggia il labbro inferiore. - Eh... io vivo in una casa in cooperativa. A questo punto, ora che abbiamo finito di pagare le rate, paghiamo solo le spese comuni. Abbiamo un'auto del '94... Insomma, l'austerità di Pepe è unica, ma che Pepe sia arrivato dove è arrivato, non è un caso. - Non è cambiato niente in Mujica? - Operativamente Pepe ha più responsabilità. Ma è la stessa persona. Continua ad alzarsi e a farsi il mate, e ad ascoltare gli uccelli. Ma quasi tutti siamo così. Io mi alzo alle sei, ascolto le notizie... - Ma non c'è nessuna posa da parte di Mujica? - No, è così. È così. Lui è così. Macché posa. La vita di Pepe è molto semplice e passa attraverso la terra. Quando uno se ne va in ferie e se ne va in montagna, o al mare, Pepe se ne va a lavorare la terra. E la domenica, quando tutti ci riposiamo, lui si alza presto per lavorare la terra. Se non fa così, non si riposa. La terra è il luogo dove Pepe organizza le sue idee. Ognuno è come è. Si tocca di nuovo: il labbro inferiore è molle, e si nota. -Il problema è che Pepe ha una cultura molto più alta e grande di quello che si deduce dal suo modo di parlare. L'ufficio di Bonomi è ministeriale ma austero: ci sono legni lucidi, mobili robusti, poltrone e tende di panno spesso. Se attraversasse la porta del suo ufficio, Bonomi uscirebbe sul corridoio del ministero e vedrebbe un palazzo pure forte e robusto: solo quattro piani che si raccolgono intorno a un cortile centrale, e in mezzo un obelisco con l'iscrizione: “Omaggio ai caduti”. Sistemate sul monumento, diverse targhe di bronzo ricordano il nome degli agenti di polizia morti in servizio. Qualcuno deve essersi fatte due risate di fronte a tutto questo. Bonomi vent'anni fa fu accusato di aver ucciso un poliziotto. Il ventisette gennaio 1972 l'Ispettore Rodolfo Leoncino, capo della sicurezza del carcere di Punta Carretas, aspettava l'autobus quando gli spararono una raffica. L'ordine, dicono le accuse, sarebbe stato eseguito da quattro Tupamaros, fra loro Bonomi. Ma sarebbe stato dato, dal carcere, da tre militanti fra i quali c'era anche José Mujica. - Quando sono uscito, con l'amnistia, mi trovai di fronte ai giudici, e la prima cosa che mi chiesero fu se un tale giorno a una tale ora avevo fatto una tal cosa, e risposi: “Mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN”. “Ma non le stiamo chiedendo questo, ma se il tal giorno alla tal ora...” “Va bene, io le sto rispondendo che mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN.” Me lo chiesero cinque volte, e cinque volte ho detto la stessa cosa. Il labbro. Di nuovo si tocca il labbro. - E ogni volta che mi fanno la domanda, rispondo: mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN. Bonomi, giacca blu, pantalone grigio, cravatta, porta gli occhiali, ha una barba folta e una voce profonda: tutti questi tipi hanno la voce profonda, ancorata in qualcosa che deve essere il loro aspro passato. - Quando durante la campagna di Mujica si vociferava che, se avessimo vinto, io sarei stato il ministro degli Interni, qui circolavano mail che mi accusavano di questo e anche di altre cose nuove. Cosicché, quando assunsi il mio incarico, nella Scuola di Polizia mi toccò fare un discorso, e allora dissi che io sapevo che erano circolate delle mail e che non volevo fare lo gnorri, e che capivo che i voti che aveva avuto il Frente Amplio non erano un appoggio a quelle accuse, ma piuttosto premiavano la visione di futuro, di un modello di Nazione con la partecipazione dei lavoratori, dei produttori e degli intellettuali. E ne furono entusiasti. Bonomi di nuovo si tocca il labbro. Trenta anni fa un colpo gli prese in pieno la mandibola e ora non può aprirla troppo.
Abitudini dell'epoca: quando José López Mercao resistette a un arresto, i militari gli spararono cinque colpi e lo finirono a terra con un sesto colpo che gli attraversò la bocca. Credettero che fosse morto, ma non lo era: i medici della marina lo trovarono e lo portarono all'Ospedale Militare. Lì gli misero in corpo quattro litri di sangue e seppe della presenza di Mujica: l'unico dirigente di cui conosceva il nome.
Era il maggio del 1970. - Mi ricordo che un giorno venne un medico con la divisa di militare e mi disse: ”Che coglioni che ha Mujica, si afferrava alla barella e diceva: 'non mi lasciate morire, io sono un combattente'. Gli abbiamo dato tredici litri di sangue, che coglioni che ha”. López Mercao ricorda e sorride: ha un viso possente, olivastro, e un sorriso attraverso il quale fanno capolino due denti leggermente limati nella punta interna: López Mercao sorride - quando sorride - come un bambino. Al suo fianco c'è Isabel Fernández, la sua compagna, e per casa girano le due figlie. Tutti vivono in un appartamento molto dignitoso nel quartiere El Cilindro, un quartiere della classe operaia di Montevideo. Alle pareti ci sono riproduzioni di Modigliani e di Van Gogh. Agli angoli dei grandi portacenere che accolgono le cicche delle sigarette fumate. Nel soggiorno ci sono mobili di bambù e un computer ingombrante. Nelle vetrine ci sono foto recenti fatte con una semplice macchina fotografica analogica: perfino le foto nuove sembrano vecchie. López Mercao, che a un certo punto è stato indicato anche come futuro capo ufficio stampa di Mujica (e alla fine non lo è stato) racconta tutta la storia che è stata raccontata in queste pagine: parla di Punta Carretas, dell'abuso, del carcere di Libertad, dell'incertezza dei nove ostaggi, dell'arrivo al potere come di un bagno di significato. E lo racconta con un parlare grave e lento: il Nero (lo chiamano 'el Negro') ha la voce indurita dal fumo. - E tu hai sognato tutto questo? Ti sono arrivati questi ricordi in sogno? - No - dice. - Io non sogno. Fuori è buio e piove; i grilli cantano. Una delle figlie si avvicina e cerca della musica nel computer del soggiorno. - In realtà - dice Isabel, - ogni volta che ritorna su quei fatti, o si riunisce con i compagni a mangiare e a ricordare, io poi noto qualcosa di diverso. Con gli anni la cosa è andata diminuendo, pero io noto che ci resti male, Nero. Noto che resti come intristito. Noto che sogni. La figlia Evelina mette un pezzo della banda uruguaiana “Cuarteto de nos”. Il pezzo si chiama “El día che Artigas se emborrachó” (“Il giorno che Artigas si ubriacò”), fa riferimento al primo liberatore uruguaiano, mitico eroe nazionale che morì in esilio in Paraguay, e finisce con questa strofa: “Si ubriacò, perché la guerra male gli andò / e si ubriacò, perché qualcuno lo abbandonò / si ubriacò, e la patria lo ringraziò / Whisky per i vinti!”. In generale le parole sono carine e per giunta qui c'è la birra, così tutti ci siamo messi a ridere. Ma il Nero, attraverso i suoi occhiali colla montatura fine, con il gomito appoggiato al ginocchio, riflette preoccupato. - La storia uruguaiana è stranissima, gli eroi della nostra storia sono stati tutti sconfitti con onore - dice. - Per la storia essere un trionfatore non è redditizio. Guarda Artigas, Aparicio Saravia, Leandro Gómez, Batlle Ordóñez. In generale, se si vince qui, è un guaio. Ma diventi un idolo. Guarda Pepe, per esempio. Metti l'altro pezzo che piace a me. Evelina obbedisce e mette l'altro. Fuori la pioggia continua a scendere e dopo qualche minuto il Nero si alza, tira una cicca dalla finestra e se ne va a prendere la macchina per portarmi in albergo. - Ti voglio raccontare una cosa, perché lui non la racconta mai - sussurra Isabel quando suo marito se ne va. E poi mi dice: - Al Nero era arrivato un risarcimento di ventimila dollari. A quelli che hanno avuto grandi ferite, a quanto pare arriva, e il Nero e la sua mandibola raggiungevano il punteggio sufficiente per entrare in quel club. Pensando al futuro - alle figlie, alle operazioni di chirurgia maxillo-facciale - lui aveva mandato i suoi dati. E da quando li ha mandati ha cominciato a dormire male. Una sera, Isabel trovò suo marito che diceva: “non posso”. - Non può accettare quei soldi. Mi ha detto: se li accettassi, se volessi un risarcimento, sarebbe come pentirmi. Io gli ho detto Nero, è il tuo corpo, sono le tue ossa, la mandibola rotta è la tua. Io non mi posso immischiare in questa cosa. Non accettare i soldi se non vuoi accettare i soldi. E lì si sarà sentito liberato, perché si è messo a piangere. Isabel ha quarantasei anni, occhi celesti, capelli biondi: se ogni età fosse illuminata da una sua luce, si potrebbe dire che questa donna è illuminata dalla luce dei vent'anni. A questo penso, alla nobiltà del suo viso, quando il Nero suona il campanello per avvisare che è sul portone, che aspetta, in macchina. Il ritorno in albergo avviene in silenzio. La Avenida 18 de Julio, l'asfalto bagnato, il ritmo calante delle vie del centro: la città sembra un film muto; si sentono solo le gomme della macchina. - Beh,- il Nero ferma la macchina. - l'ultima cosa che posso dire è che furono gli anni più belli della nostra vita. Non abbiamo mai fatto i nostri interessi. Abbiamo dato tutto. E adesso viviamo in un esercizio di interrogazione periodica con quel ragazzino che siamo stati a vent'anni. Io non voglio fare a sessant'anni cose che mi sarei vergognato di fare a venti. Voglio andarmene dalla vita senza amputare delle parti di me stesso. Forse agli altri compagni succede la stessa cosa. Questa è l'ultima cosa che dice il Nero prima di salutare con un gesto asciutto, appena una pacca sulla spalla, e di lasciare aperta una domanda: se questa storia doveva essere su José Mujica, o sulla meraviglia collettiva che ha permesso che esista, con assoluta semplicità, José Mujica. Questo testo, in qualche modo, ne è una lunga risposta. |
Third Eye
lunedì 10 agosto 2015
Il vecchio Pepe.
giovedì 27 novembre 2014
L'uomo realizzato
L'uomo realizzato
ha 48 anni e vive in una casa a due piani, con il piano terra
rialzato di cinquanta centimetri dal suolo.
La sua abitazione
non ha recinzioni, perché il suo paese è tutto sommato sicuro. Ci si potrebbe sbilanciare, dicendo che è il più sicuro del mondo.
Certo, a volte
qualche negro muore senza apparente motivo.
Certo, in diversi
casi è successo che qualcuno finisse sulla sedia elettrica. Con
l'apparente motivazione della sua colpevolezza.
Ma è anche per
questo che il suo paese è sicuramente sicuro. In mezzo a tante mele
marce eliminate, qualche mela sana finisce col perire.
Qualche decina o
centinaia.
E poi i negri e
gli svitati, arrostiti o avvelenati dalla giustizia, non sono uomini
realizzati, ma sono quelli che il sistema cerca sempre di nascondere,
e se possibile, segretamente eliminare.
L'uomo realizzato
cura il proprio giardino, e se non lo fa lui, lo delega a qualche
altro uomo, quasi certamente uno che sta cercando goffamente di
realizzarsi, meglio se di un ceppo genetico inferiore al suo. L'erba
non dev'essere mai e poi mai più lunga di 5 centimetri, altrimenti
lo schema di successo implode e con esso tutto l'universo finora
conosciuto.
L'uomo realizzato
ha un pennone piantato nel suo bel giardino, su cui sventola fiera la
bandiera del proprio paese, che regala democrazia a tutti i morti di
fame del mondo, salva paesi disintegrati dalle guerre, con il
consenso altrui pone basi militari per difendere i paesi meno
potenti, e democraticamente esporta modelli economici di successo,
che rendono tutti indipendenti e felici.
L'uomo
realizzato, un tempo, ha avuto dei genitori: suo padre è morto in
combattimento, è morto per difendere il proprio paese in una guerra
giusta, a quasi quattordicimila chilometri da casa. Ebbene sì, era
necessario difendere la patria anche laggiù. Ora i suoi resti
giacciono in un cimitero a pochi chilometri da dove abita, ma lui ci
va raramente, perché non ha tempo.
Sua madre invece
risiede in una struttura, l'uomo realizzato ha deciso di sistemarla
lì perché non aveva tempo e spazio per prendersene cura a casa
propria. L'ultima volta che è stato a trovarla, il presidente in
carica era quello travolto dallo scandalo del sesso nelle stanze del
potere, eccetera eccetera. L'uomo realizzato tiene sempre a precisare
che non aveva comunque votato per lui. In quell'occasione, la madre
non si ricordava più nemmeno chi fosse, così lui ha deciso di non
andarci più.
L'uomo realizzato
possiede un cane; se lo tiene fuori casa, lo lega ad un albero,
perché come già detto egli ha anche realizzato che un cane senza
recinto, scappa. Se lo tiene in casa, è falsamente felice quando
questo gli inzacchera tutto con le zampe sporche, e lo guarda con un
sorrisetto che sta a significare “Furbacchione, anche tu hai
realizzato il tuo progetto, ma non farlo più”. E questo si ripete
ogni santo giorno.
Possiede anche
una moglie, ma la possiede quando vuole lui, e quando i ritmi della
sua vita gli danno due o tre minuti per sfogare i suoi intinti
primordiali. A volte basta molto meno, perché l'uomo realizzato non
può fermarsi su queste piccolezze, ma deve continuare a produrre per
il proprio paese.
L'uomo realizzato
si sente più sicuro se la moglie non è realizzata; in questo modo,
l'unico sostentamento proviene solo e solamente da lui, e questo lo
rende potente, lo mette un gradino più in alto rispetto alla moglie
e ai figli.
Ed ecco allora
che la realizzazione passa anche dal possesso.
I figli; l'uomo
realizzato ne fa uno, o al massimo due, giusto per dare un briciolo
di soddisfazione a quello straccio di moglie che si ritrova, e farla
sentire completa. Appena compiuti due anni, ordina alla donna di
spiegare alla prole come la loro nazione sia riuscita ad essere così
importante e potente, e questa istruzione proseguirà poi con la
scuola ed il college, lungo una stessa linea, affinché anch'essi
divengano cittadini modello e realizzati, laboriose colonne della
nazione.
Il possesso rende
molto più realizzato l'uomo. Egli possiede un'infinità di oggetti,
in primis la moglie, ma anche i figli, il cane, la casa, il giardino,
la libertà, la sicurezza, una pistola, e infine ma non ultima,
l'auto.
L'uomo realizzato
possiede un'auto quasi del tutto simile ad altri uomini realizzati,
possibilmente lunga sei metri e che percorre sette chilometri con un
solo litro. Si riconoscono così, tra di loro, e si ritrovano per
discutere di quanto sia perfetto il loro macrosistema, ma quando lo
fanno, si guardano bene dallo spargere la voce, perché quello che
odiano è che uomini non realizzati al loro livello, riescano ad
infiltrarsi e a carpire i segreti del loro successo.
L'uomo realizzato
ama tutto ciò che è prodotto dal proprio paese, e disprezza il
resto; gli elettrodomestici devono essere nazionali, l'automobile
pure, il cibo anche, e per finire anche lo sport.
Ogni volta che
può si reca allo stadio assieme a migliaia di altri uomini
realizzati, o in via di realizzazione, per seguire lo sport, che lo
distrae dai ritmi elevati dell'esistenza umana, e dallo stress
derivante dall'avere scoperto che nella sua via risiede un uomo che
si è realizzato più di lui.
E oltre allo
stress, egli inizia a covare del rancore dentro.
L'uomo realizzato
legge il giornale ogni mattina prima di andare al lavoro, ma, essendo
libero, ha la facoltà di leggerne tre o quattro, in modo da sentire
diverse campane. A volte queste sono molto diverse, perché i
quotidiani sportivi non parlano di economia. Ecco le uniche grandi
differenze.
In ogni caso lui
inorridisce quando scopre che in un paese lontano circa diecimila
chilometri, lo sport nazionale è diverso da quello amato da lui e da
tutta la nazione, e anche in questo caso inizia a covare rancore
dentro.
Il rancore
diventa odio quando scopre che il suo paese, sì, gode di rispetto in
un certo emisfero, ma risulta piuttosto antipatico nell'altro.
Com'è possibile?
Secondo lui il
governo dovrebbe prendere provvedimenti, è impensabile che sussista
questa disparità di trattamento, ed essendo lui nato e cresciuto con
dei ferrei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà, è convinto
che la propria nazione dovrebbe sentirsi libera di perseguire
giustamente un obiettivo, ovvero quello di farsi amare, in egual
misura e sfruttando qualsiasi mezzo, da ogni altro paese e da ogni
altro abitante del pianeta. E queste nazioni vengono etichettate
dall'uomo come ostili, e inserite in una sua lista immaginaria in
attesa di essere convertite e/o punite.
L'uomo realizzato
frequenta la chiesa, non è importante quale, perché nel suo paese
tutte le religioni sono uguali. Tranne quelle ostili, ovviamente, e
sembra che aumentino di giorno in giorno. Il perché egli frequenti
la chiesa non lo sa, probabilmente è qualcosa che gli hanno
trasmesso da piccolo, forse addirittura con il latte materno, o con
qualche vaccino. Ci va solo di domenica però, mentre il resto della
settimana non da importanza alla religione, se non quando essa
diventa pretesto per esportare la guerra presso altri popoli.
Sorridendo, l'uomo realizzato dice: “Dio riceve soltanto la
domenica”.
L'uomo realizzato
è anche fedele alla scienza. A chi gli chiede come mai vada in
chiesa, e al tempo stesso sia così legato alla sua teorica nemesi,
egli risponde che entrambe possono contribuire ad un benessere
superiore.
Crede fermamente
nella medicina, nei ricercatori, ma anche nell'ingegneria genetica, e
in come questa venga applicata nell'ambito agro alimentare. E'
convinto che tra non molto, il suo paese potrà diventare esportatore
di un nuovo tipo di cibo, e imporrà i propri prezzi a tutti i paesi
del mondo, in particolar modo laddove esso risulta antipatico.
L'uomo realizzato
è un cittadino modello, rispetta la legge, e nel nome di essa si
reca a votare, così come tutti gli altri cittadini; lui sa che è un
suo dovere, e sa sempre per chi votare, perché l'uomo da lui scelto
è quello più adatto a guidare il paese, economicamente e
socio-politicamente. Sa anche che l'avversario del suo prediletto è
un sodomita, probabilmente omosessuale, e forse forse nutre qualche
interesse verso i bambini. Non può essere lui al timone di una
nazione talmente equa e splendente.
Subito dopo aver
votato, l'uomo realizzato riprende la propria esistenza, ma poco dopo
scopre che le elezioni sono state vinte dal lurido sodomita pedofilo.
E ciò gli fa
covare rancore.
Nonostante tutto,
l'uomo realizzato ama sempre il proprio paese, e lavora per esso;
quindici ore al giorno tutto sommato sono poche, perché ha la
possibilità di pranzare in un nazionalissimo fast food, e ci mette
solo tre minuti e ventotto secondi, ma sta già pensando ad un metodo
per impiegarne di meno, così da poter tornare in fretta a produrre
ricchezza.
Al fast food c'è
sempre un gran viavai di gente, gente onesta e instancabile che
produce tanto come lui; per loro l'uomo realizzato non prova rancore,
ma li considera come dei compagni di remata, uniti per tornare a
trainare l'economia mondiale.
L'uomo realizzato
lavora così indefessamente anche perché si è reso conto con il
passare del tempo, che il sodomita, in fondo, è una brava persona, e
stranamente sta assolvendo parte degli oneri che si era preso il suo
avversario di campagna elettorale. Sarà un caso, ma anch'egli è un
po' infastidito dai paesi che non amano la sua nazione.
L'ennesima
coincidenza viene dal colpo di stato, avvenuto in uno staterello
apparentemente inutile ma, dicono gli amici dell'uomo realizzato, con
una grande quantità di ricchezze nel sottosuolo; lì ha governato un
generale che, dicono sempre gli stessi, è stato sempre molto amico
della loro nazione, ma ora sembra aver perso la testa e pare non
essere più intenzionato a trattare.
Ed è così che
il sodomita pedofilo compie una mossa che nessuno si sarebbe
aspettato al momento delle elezioni; la confederazione democratica
dichiara guerra allo staterello.
Ed è qualcosa di
sacrosanto, pensano tutti gli uomini realizzati, perché è meglio
prevenire che curare. Giusto. Ma se è ormai tardi, è meglio curare
piuttosto che dover rimpiangere quel momento, quando lo staterello
diventerà potente e avrà la forza per soggiogare il mondo. Ed è
ciò che dicono incessantemente i mass media, e per questo è
sicuramente fedele alla realtà.
Mai è accaduto
nella storia del paese, che l'informazione abbia mentito ai
cittadini.
L'uomo realizzato
trova finalmente una valvola di sfogo a tutto quel rancore, e inizia
a lavorare di più, perché in tempo di guerra il paese deve produrre
armi, munizioni e tutto quanto necessario per riportare l'ordine
nell'universo.
E questo produrre
incessante va avanti per anni, perché il nemico è potente, la
guerra richiede tempo, e anche quando sembra essere ad una svolta,
accade sempre qualcosa che ne ritarda la fine. Oltre a ciò, nuove
minacce si affacciano sulla nazione; religioni diverse, popoli
diversi sembrano doversi abbattere su un paese tanto amato e tanto
famoso per aver esportato positività e ricchezza.
Parallelamente a
questo, l'uomo realizzato inizia ad interessarsi alle vicende di
altri paesi, perché i figli ormai sono adulti e lui non li possiede
più. Si sono diplomati e sono andati a vivere con le loro mogli,
diventando a loro volta uomini realizzati; questo da un lato rende
orgoglioso il padre, ma dall'altro, la cessazione del possesso su di
loro, gli fa covare molto rancore dentro.
Non avendo più a
chi badare, la moglie si è trovata un impiego part time, con cui
riesce a contribuire alle spese; per la prima volta sente di poter
realizzarsi, anche se in maniera minima, e questo non fa piacere
all'uomo realizzato, che in poco tempo sente di poter perdere il
controllo e il possesso di tutta la sua cornice di successo e di
apparenze. E il suo rancore cresce e cresce, alimentato anche dal
fatto che la moglie sembra non arrendersi più a lui ogni qualvolta
lo desideri, ma anzi spesso si rifiuta di essere posseduta come un
tempo.
L'uomo realizzato
ha perciò più tempo per dedicarsi ad altro e inizia, come detto, ad
interessarsi alle vicende di altre nazioni. Scopre con immenso
piacere che il prodotto più importante del suo paese, dopo le armi,
è esportato con grande successo in tutto il mondo.
Viene a
conoscenza anche del fatto che il sistema economico tanto solido è
quello prevalente, e lo rende orgoglioso, perché con il suo lavorìo
ininterrotto ha contribuito in prima persona a ciò. O almeno è
quello che i mass media dicono ai lavoratori.
Scopre che catene
di fast food, ipermercati enormi, fabbriche di elettronica, di
cosmesi, di farmaci, si stanno espandendo a macchia d'olio, e prova
felicità per questo.
Non è nemmeno
preoccupato dall'inquinamento che tutto questo lavorìo mondiale è
riuscito a produrre, perché sa che la scienza metterà una pezza
anche a ciò.
La medicina
arriverà laddove la scarsa o pessima qualità del cibo, i gas di
scarico, i metalli pesanti, avranno avvelenato le persone; sempre che
queste persone siano amichevoli nei confronti del suo paese. In caso
contrario la medicina non potrà giungere fino a loro.
Durante il suo
percorso di informazione, nota anche che molti stati, che prima
vivevano essenzialmente di agricoltura, ora sono letteralmente in
ginocchio, oppure completamente falliti, e si chiede se sia colpa del
modello economico del proprio paese. Alcune volte il dubbio si
insinua nella sua mente, ma subito lo scaccia via, pensando tra sé e
sé che essi erano naturalmente destinati a implodere.
Un'altra
riflessione che egli è costretto a fare, è che diversi stati, un
tempo ricchi, ora sono letteralmente svuotati di ogni cosa, e sono
sull'orlo della distruzione; gli sembra strano che durante questo
processo, il suo paese sia sempre stato chiamato in causa, per un
motivo o per un altro, e alcune volte ne sia uscito addirittura
arricchito e più forte.
Perfino il suo
pensiero politico si è, nel tempo, modificato; l'uomo realizzato
infatti si è accorto che chiunque sieda sullo scranno del potere, ha
come scopo principale quello di fare gli interessi di una sola classe
sociale e, sebbene lui ne faccia pienamente parte, pensa che non sia
del tutto equo.
Ormai alla soglia
dei sessant'anni, l'uomo realizzato si è accorto che non riesce più
a produrre come un tempo, gli orari estesi non fanno più per lui, e
gli sembra quasi di essere un peso per il suo datore di lavoro.
Il giardino non è
più curato come un tempo, perché il suo appeal sociale è
diminuito, e il giardiniere di un tempo si è realizzato in tutto e
per tutto, cosicché ora si trovano praticamente sullo stesso gradino
della scala.
La moglie lo ha
lasciato, e di lei non ha più avuto notizie.
I figli non lo
vanno quasi mai a trovare, perché essendo anch'essi diventati uomini
realizzati, non hanno tempo per lui.
Il suo cane è
morto.
Improvvisamente
si ritrova da solo, e ciò che possiede non lo soddisfa più; la
casa, il giardino, la macchina, sono troppo poco per uno che ha
sempre dato il centodieci per centro in favore del paese, o almeno è
ciò che gli ripetevano sempre.
Come se non
bastasse, durante una visita dal suo medico di fiducia, viene
scoperta una malattia; una di quelle che la medicina doveva essere in
grado di curare, secondo lui. E invece gli viene sentenziata in
faccia la condanna a morte in pochi mesi.
L'uomo riflette.
Sarà forse stato
il suo stile di vita?
Sarà a causa
della sua alimentazione, che includeva cibi di scarsa qualità da
almeno trent'anni?
Sarà il fatto
che si sia nutrito di veleno, si sia lavato con veleno, abbia
respirato veleno, abbia assunto veleno, si sia fatto iniettare
veleno?
Tutto ciò lo
lascia interdetto. La medicina non gli da speranza, non ha più una
moglie, e i figli, pur sapendo della malattia, continuano a
interessarsi poco a lui.
E, tutto ad un
tratto, si sente quasi come se il sistema, che lui stesso aveva, nel
suo piccolo, sorretto, lo stesse rigurgitando come un rifiuto, come
qualcosa di non più produttivo; perfino gli altri uomini realizzati,
quelli con cui un tempo si riuniva per immaginare le pedine mosse
sulla scacchiera geopolitica ed economica, non lo degnano più
nemmeno di uno sguardo.
Prima di morire,
giunge alla conclusione che non si è affatto realizzato, che va
all'altro mondo da fallito, che nessuno si ricorderà di lui e
probabilmente nessuno andrà al suo funerale o a portare dei fiori
sulla sua tomba.
Ma nel suo
universale fallimento, ha invece realizzato pienamente il progetto di
colui che stazionava sul gradino al di sopra del suo.
Se avesse avuto
ancora tempo, avrebbe continuato a covare del rancore dentro.
venerdì 21 novembre 2014
Non ricordare di non ricordare.
Oggi vorrei abbracciare forte i miei genitori, come se non dovessi più
vederli.
Da quasi 27 anni vivo con loro, e da almeno un
quarto di essi ho smesso di prodigarmi in simili gesti.
Sono
passati quasi 3 anni da quando, durante i miei tirocini, ci siamo
recati presso una famiglia.
Una
bella casa, come quelle di una volta, con il piano terra rialzato e
ancorato al suolo da una scala di pietra e da quelle cantine dove i
nonni mettevano a stagionare il vino e i salumi.
In questa casa viveva una coppia di coniugi anziani: la signora potrei descriverla come minuta, dai capelli grigi fino alle spalle, ma con uno spirito forte.
La prima cosa che mi colpì del marito non furono né i suoi candidi capelli, né che fosse un uomo alto e piantato, ma il fatto che non riuscisse a legarsi la cintura e, per quanto si sforzasse, non ne era capace; continuava a tirarsi su i pantaloni, più su dell'ombelico, e attorcigliava la cintura per fissarla.
In questa casa viveva una coppia di coniugi anziani: la signora potrei descriverla come minuta, dai capelli grigi fino alle spalle, ma con uno spirito forte.
La prima cosa che mi colpì del marito non furono né i suoi candidi capelli, né che fosse un uomo alto e piantato, ma il fatto che non riuscisse a legarsi la cintura e, per quanto si sforzasse, non ne era capace; continuava a tirarsi su i pantaloni, più su dell'ombelico, e attorcigliava la cintura per fissarla.
Non
ci considerava minimamente, credo che per lui non esistessimo,
eravamo esclusi dal suo mondo.
Non
sembrava essere convinto della buona riuscita della sua opera. Alzò
gli occhi un istante verso di noi, ed erano degli occhi vuoti, che
non esprimevano alcuna emozione, come due sfere anonime; sembrava che
ci attraversassero per guardare oltre, verso qualcosa che solo a lui
era dato di sapere.
Senza
degnarci di ulteriori attenzioni,andò a sedersi sul divano, davanti
alla televisione,ma non la accese, e se ne stette lì a fissarla
senza mai proferire parola. Pareva che appartenesse ad un'altra
dimensione, con la quale non potesse esserci comunicazione. Ho sempre
voluto conoscere, sapere; vorrei sapere se è ancora vivo, vorrei
sapere cosa c'era nella sua mente quel giorno.
Il
nulla?
Il
vuoto?
Oppure,
al contrario, il caos?
Oppure
ancora, qualcosa il cui fluire era così lento, da renderlo persino
estraneo a questo mondo?
Quell'uomo
in quel momento, mi ricordò mio nonno, non per la sua malattia, né
per il suo disagio, ma perché alcuni signori anziani,
inevitabilmente, hanno qualcosa che ci ricorda un nonno. Forse i
classici capelli bianchi, forse gli occhi azzurri.
Ma
quello stesso uomo, più passa il tempo, più sembra prendere le
sembianze di mio padre. E' il segno dello scorrere del tempo, è il
segno che stiamo invecchiando, e quella subdola impersonalità che
rende tutti estranei, perfino la propria moglie, non è più solo una
malattia dei vecchi, ma una malattia anche dei genitori, che stanno
diventando vecchi.
giovedì 18 settembre 2014
Ateismo
[Inedito]
Sono ateo.
Forse sono ateo.
Forse sono ateo per invidia.
“Perché?”, mi verrà chiesto.
Qualcuno in grado di poter decidere,
deliberatamente, del sistema
universo,
che sia in possesso di un potere così
grande,
lo odio talmente tanto,
e quest'odio cresce e cresce,
fino a diventare negazione.
E la negazione dell'altro,
come rappresentante di un culto qualsiasi,
diviene ateismo.
Nessuno può avere un tale potere.
Se solo esistesse un entità superiore in
grado di decidere sulle sorti di galassie intere,
avrebbe da centinaia di anni posato l'occhio su questo
pianeta,
abitato oggi da 7 miliardi di tumori,
che nascono, crescono, si espandono, si
moltiplicano
creando metastasi in ogni luogo.
Consumano, distruggono, macinano tutto,
bruciano, fagocitano.
Ogni gruppo ha il proprio dio,
la propria cultura,
le proprie usanze.
Ma non cambia proprio nulla,
perché il loro comportamento è
identico.
Lo scopo della loro vita è il
medesimo,
infettare e danneggiare l'ecosistema.
La specie umana altro non è che un
immenso,
putrescente,
vergognoso,
paradosso evoluzionistico.
Si è sviluppato per diventare un
macrosistema di morte,
perché è unicamente questo lo scopo
della sua vita,
distruggere il più possibile prima di
disciogliersi,
e ricominciare.
Se l'intelligenza si misurasse sul
volume encefalico,
la formica sarebbe insulsa.
E invece la formica supera di gran
lunga l'uomo.
Vorrei con tutte le mie forze credere
in un dio,
perché la sua esistenza metterebbe
automaticamente fine
a quella del cancro umano, che a sua
volta si ritiene dio.
Non c'è posto per due presunti dei al
mondo.
Giunti a questo finale, viene da
chiedersi
se si possa accettare l'esistenza di un
organismo,
che uscendo dal ventre della propria
madre,
incomincia un percorso di morte,
e in questo percorso espande il proprio
seme terribile ovunque gli capiti.
Come si chiama uno che non crede
nell'esistenza dell'uomo?
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