mercoledì 12 marzo 2014

Mosche

Estate di tanto tempo fa. Caldo.
Il grano oppresso dallo scirocco incandescente.
Le cicale come emorragie nel mio cranio.
Una cascina dispersa nel nulla.
Avrei potuto scappare in ogni momento, ma non l'ho fatto.
A oggi, la scelta migliore della mia vita.
Nessun giornalista stempiato a gracchiare notizie.
Nessuna tv del dolore a leccarmi le ferite.
Nessun carosello gioioso a smorzare la mia morte morale.
Solo le mosche mi degnavano di attenzioni disinteressate.
Per tre anni la stessa frase:
"Tesoro! Sono tornato..."
Raggelante, sentenziosa come l'ascia di un boia.
E io scappavo, nel profondo della mia anima,
ma restavo immobile su quella branda, fusa con me.
Assente.
Ti piacevano la mia pelle liscia,
i miei capelli fini e lunghi,
i lineamenti puliti.
Credo che mentre mi fissavi, dalla tua posizione dominante,
non sapevi nemmeno se ero maschio o femmina.
Ero come la creta per un vasaio,
di peso mi scivolavi sottopelle,
lacerando e fremendo in un valzer perverso.
Il mio corpo come capolavoro Fontaniano,
e il mio intimo devastato come Guernica.
La cosa che ero, distante chissà quanto,
a giocare con i soldatini prussiani,
sognando che venissero a ficcarti del piombo nel cuore.
La mia vittoria contro i francesi, schiacciante come sempre,
interrotta da mia madre,
lesta nel ricordarmi di andare a prendere il pane,
o sistemare la mia stanza.
"Per oggi ti è andata bene Generale Frossard,
la tua umiliazione è rimandata a domani."
La mia no, è stata sempre precisa e puntuale.
Avevo tutto, e mi era stato rubato tutto, dal mio stesso sangue.
Diventare uomo a 9 anni, senza aver mai baciato una bambina.
E nonostante ciò, non fuggivo.
Mille volte ho scalfito quella parete, quei muri testimoni di tutto.
Se non lo facevano le mie unghie esasperate,
nel vano tentativo di sfuggire all'ascia,
lo faceva la mia mano tremante,
come monito che quello era il conto di ciò che mi era stato rubato.
Mille giorni più una vita intera.
Al millesimo ti ho atteso, tesoro,
e quando sei tornato, mi sono ritratto,
rannicchiato come un serpente,
ho atteso che tu fossi su di me,
bramoso di scaraventarmi ancora nella fossa.
E ti ho colpito, e ancora, e ancora,
con un solo dente luccicante ti ho riempito di veleno.
Rancore, rivalsa, vendetta. Panacea mortale.
Ho avuto pietà, troppa, ti ho annientato in poco tempo.
Ho visto zampillare la tua vita su di me,
il tuo calore disperdersi e tornare parte dell'universo,
la tua espressione interrogativa specchiata nella mia risata isterica.
E per la prima volta ho sentito la viscosità di un orgasmo, mio.
Caldo, reale, vellutato, violento.
Ti ho lasciato su di me, grasso porco bastardo,
e ti ho guardato fisso negli occhi, duro come ossidiana,
aspettando mentre ti svuotavi dalla linfa,
incapace di muovere qualsiasi muscolo, atterrito,
e il mio petto cinabro che ancora sussultava estasiato.
Non dirmi che non ti è piaciuto il mio omaggio,
un gesto per sdebitarmi di tutte le attenzioni subite,
il tuo membro potato e succhiato viscidamente da una bocca diversa, la tua.
Sai come sono, l'ho fatto col cuore in mano, il tuo.
Papà.

Affidato ad altri fino alla maggiore età,
non li ho mai amati.
Mamma, non ricordo nemmeno più il tuo profumo,
e ancora mi vergogno nel venirti a cercare,
Non sono stato in grado di impedirlo,
complice del mio carnefice.
Vivo il disagio della luce, degli sguardi,
rifuggo dagli adulti,
io, un bambino di ventun'anni.
Appena ho potuto, ho preso la mia borsa piena di ricordi
e me ne sono andato per finire ciò che avevo cominciato.
Tale padre, e tale figlio.
Lo faccio per il piacere carnale, come lui.
Vengo dentro le loro vite, per disprezzo, come lui.
Uccido le anime, come lui.
Vivo nel buio del passato, afferrando gli spiragli di luce del presente.
L'onnipotenza mi è stata donata per pareggiare il conto salato di tanti miei fratellini indifesi.
Non hanno altri dèi all'infuori di me.
Strappo la vita alle bestie indegne di possederla,
coloro che mettono al mondo oggetti per il loro piacere,
menti malate che amano nella maniera sbagliata.
Li cerco di notte, li sento attraverso i muri, vedo nei loro cuori,
sono marchiati a fuoco, senza scampo.
Si riconoscono perchè corrono sempre, cercano di sfuggire ai loro demoni.
Prima o poi saranno miei.
Le mani inguainate, pronte a fendere,
non lascio tracce, sono letale.
Li recido e li lascio svuotare,
si sforzano di gridare con la gola squarciata, inutilmente.
Ma quei porci moribondi urlano con lo sguardo:
"Perchè? Chi sei? Cosa ho fatto?"
Li scruto e tutti hanno gli occhi di quell'uomo chiamato Padre,
affamati, disperati.
Con l'ultima esalazione spalancano il cuore,
in ritardo ma hanno capito.
Amen.
Ogni volta l'orgasmo si intensifica, sempre più abbondante,
sempre più indifferente.
E' lo spirito santo.
Sono lì, gli tengo la mano, accompagno i loro volti interrogativi,
perchè è una cosa che va fatta.
Questi sono i Figli di Dio con il proprio membro in bocca.
Anche i bambini hanno la gola tagliata, non parlano,
amano troppo i genitori, ne sono dipendenti,
l'amore sbagliato non viene mai alla luce.
Ai funerali noto figli tristi ma che non piangono,
e mogli disperate che non si capacitano,
era un padre modello, un lavoratore onesto, casa e chiesa.
A casa hai scarnificato l'anima del tuo stesso sangue,
in chiesa tieni ben chiusa la bara con i tuoi segreti.
Ecco il Padre Modello figlio di Dio,
ecco spiegate le montagne di giocattoli fuori stagione,
i gelati in pieno inverno,
Mamma, ecco spiegati i soldini che trovavi nei miei pantaloni corti.
Ti dissero che ero stato rapito, scomparso.
Dal suo punto di vista, non andavo più condiviso con te.
Niente giocattoli per me, né gelati, nulla di nulla,
solo unghie conficcate nella schiena, tintinnio di cinture slacciate,
sorrisi terribili e saliva arroventata. Per mille notti.
Dopo l'estremo saluto e le lacrime versate,
scrivo alle famiglie, per sdebitarmi.
Disegno la storia di quel Padre, di ogni Padre, delle urla strozzate,
dei ricatti privati. Il patto del silenzio.
Devono stare male, per aver pianto sulla lapide di un essere indegno,
per averlo amato preferendo non sapere. Ma è troppo tardi.
Così come io ho pianto in quel casolare,
dopo ogni umiliazione,
per loro dev'essere la più tremenda sconfitta, la beffa più bruciante.
Io sono la via, la verità e la vita.

Non uccido. Purifico.

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